Lo scrittore francese Christophe Boltanski a Lecce per presentare il suo romanzo

Lo scrittore francese Christophe Boltanski a Lecce per presentare il suo romanzo

20 Giugno 2024 Off Di Redazione

Martedì 25 giugno, alle ore 19:00, il Chiostro degli Agostiniani a Lecce ospita la presentazione del romanzo “King Kasai. Una notte coloniale nel cuore dell’Europa” di Christophe Boltanski (Add Editore).

“Mi infilo nel sacco a pelo e ricomincio a leggere ‘Cuore di tenebra’. Secondo molti, Joseph Conrad avrebbe avvalorato gli stereotipi sull’Africa, una terra che nell’immaginario occidentale è sempre stata associata al terrore, alla ferocia, al vuoto. Alle tenebre, appunto. Ma quell’oscurità che lui esplora non è anzitutto la nostra?” – si domanda lo scrittore e giornalista francese (negli anni corrispondente dalla Guerra del Golfo, da Gerusalemme e da Londra) che dialogherà con Alessandra Beccarisi, docente di Storia della filosofia medievale dell’Università di Foggia.

L’appuntamento, promosso in collaborazione con Diffondiamo idee di valore, Conversazioni sul futuro e Officine Culturali Ergot, rientra nella quarta edizione di Agostiniani Libri, rassegna letteraria del Comune di Lecce e della Biblioteca Ognibene.

Pubblicato in Italia da Add Editore con la traduzione di Sara Prencipe, il volume fa parte della collana “Ma nuit au musée” creata dalla francese Éditions Stock che offre agli scrittori l’opportunità di trascorrere una notte in un museo. Da queste esperienze nascono testi sorprendenti, poetici ed emozionanti che permettono esplorazioni di territori diversi, riflessioni filosofiche, estetiche, sociologiche e pura creazione letteraria. Boltanski sceglie l’Africa Museum, un tempo Museo reale dell’Africa centrale, costruito costruito a Tervuren nella regione del Brabante Fiammingo per celebrare la gloria dell’impero coloniale belga e del suo re Leopoldo II. È qui, in questo edificio maestoso oggi “de-colonizzato”, che Boltanski decide di passare una notte, visitandone i sotterranei, densi di stereotipi razzisti scolpiti nel marmo e nel bronzo, per poi riemergere nelle gallerie dove teche scintillanti racchiudono uccelli, pesci, rettili, primati, fino all’uomo-leopardo di Tintin. E King Kasai: cinque metri di altezza, sette di lunghezza, quattro zampe grosse come boe, due vele grigie spiegate al vento come orecchie e un centinaio di chili di avorio alla prua. Troneggia in disparte, lontano da tutto, arca simbolica della crudeltà di un tempo dimenticato. In King Kasai l’autore segue a ritroso le orme del cacciatore che partecipò alla spedizione del Museo e uccise l’elefante, nel 1956, addentrandosi nell’oscurità di uno dei tanti “cuori di tenebra” dell’Occidente, densi di colpe un tempo impensabili, e ora appena ammissibili.

Cerco di viaggiare leggero. Si dice che durante le sue scorribande in Africa, Henry Morton Stanley si portasse dietro una vasca da bagno, tappeti persiani e champagne. Io mi accontento di comprare una bottiglietta d’acqua in una locanda appena prima che chiuda. Quando esco dal locale mi avvolge un odore di sottobosco e di ozono. In fondo alla piazza del mercato intuisco nell’ombra la massa scura degli alberi che circondano la città. Nuvole dense velano il cielo. Le strade sono già deserte. Alina Gurdiel, la mia editor, ha insistito per farmi compagnia fino alla partenza. Prima di tornare in albergo mi ha guardato con aria inquieta. «Forza. Vedrai che andrà tutto bene», ha detto, come se stessi salpando per un Paese lontano. Invece devo fare appena un paio di chilometri. Una mezz’ora di cammino. Mi attardo, nonostante l’ora e il temporale che incombe. Qualcosa mi trattiene. È la prospettiva di attraversare un bosco a notte fonda o di rimanere chiuso, da solo, fino all’alba, in un castello stregato? […] C’è chi esibisce al pubblico orsi o scimmie ammaestrate. Il secondo re dei belgi esibiva esseri umani. Nel suo mondo fatto di eccessi, tutto sfiora la caricatura: la folta barba a spazzola, l’altezza da gigante (un metro e novantacinque), la dolicocefalia, il naso sporgente – «che gli deforma il viso», ripete sconsolata la regina madre – l’ingordigia – era in grado di trangugiare due faraone nello stesso pasto – e il frutto della fame insaziabile e delle ambizioni che lo muovono: il suo impero. Sin da giovanissimo aspira a grandi spazi. Trova soffocante il suo regno tascabile e cerca il modo di affrancarsi da una Costituzione che lo condanna a un ruolo puramente di facciata. Desidera conquistare nuovi territori non nel nome del Belgio, che non li vuole, ma a titolo personale. Sogna ricchezze e più ancora un potere che non possiede. Comincia quindi a indagare, a interrogare i suoi corrispondenti. Le Filippine sono in vendita? E se invadessimo la Cina? Tenta di comprare le isole Figi, poi una parte del delta del Nilo. Ambisce alle miniere d’oro di Giava e alle ricchezze dell’imperatore del Giappone, definite «immense e mal custodite». Non ha l’anima di un esploratore, ma di un filibustiere. Se ne avesse la possibilità conquisterebbe qualunque cosa, anche un altro pianeta. Come il Dittatore di Chaplin, gioca con un mappamondo. Leggero quanto una bolla di sapone. Solo che arriva troppo tardi. L’essenziale è stato preso dalle altre nazioni europee. Sulle carte dei suoi geografi non resta che una grande macchia bianca, una crepa all’interno di un continente ancora misterioso. Lui vi si getta a capofitto. «Non voglio lasciarmi sfuggire l’occasione di prendere una fetta di questa magnifica torta africana», scrive allora.

 

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